Quando qualche tempo fa diversi incauti osservatori delle dinamiche di Palazzo liquidavano come “democristiana” la tendenza della politica post-ideologica – della quale il Movimento 5stelle è sicuramente incarnazione più compiuta – si sbagliavano alla grande. E si sbagliavano per difetto. Perché quella inflazionata aggettivazione d’antan – che nelle intenzioni di chi la pronunciava voleva essere certamente denigratoria – suona come una specie di complimento al cospetto di quello che continua ad essere il principale partito anche di questa novella maggioranza messa insieme da Mattarella e Mario Draghi. E’ vero, i protagonisti scudocrociati della Prima Repubblica furono campioni di realismo politico, demiurghi delle convergenze parallele, artefici del manuale Cencelli, inventori dei due forni, franchissimi tiratori scelti, specialisti dell’appoggio esterno e pluridecorati sul campo in tutte le discipline conosciute dell’inciucio parlamentare, ma vivaddio persino loro avevano un limite. E quando decisero, con il proprio presidente di allora, di dar vita alle celeberrime “convergenze parallele” con il nemico di sempre – i comunisti trinariciuti di Peppone, per usare un’immagine cara al gigante del quale portiamo indegnamente l’eredità – fu un parto lungo e parecchio travagliato, dagli esiti drammatici.
Chissà il povero Aldo Moro, che per arrivare a quello storico abbraccio coi compagni dovette tribolare anni, per finire poi dentro il cofano di una R4, quanto si starà rigirando nella tomba nel vedere praticamente tutti i protagonisti dell’attuale stagione politica cambiare alleati di governo come se fossero mutande. Ma di quelle fetenti, pescate sistematicamente nella cesta dei panni sporchi delle famiglie altrui. Maleodoranti come la camicia di Zingaretti madida di sudore mentre lui – ingaggiando la solita drammatica lotta impari con quella zeppola che manco Topo Gigio – riusciva a pronunciare convinto il suo “mai con i Cinquetelle”. Peccato che dopo poco più di un anno era lì a farsi dettare l’agenda dalla piattaforma Rousseau. Un discorso non troppo dissimile da quello che si può fare per l’ex padano, l’ex patriota sovranista, l’ex vicepremier gialloverde e infine novello “diversamente europeista” Matteo Salvini, passato con disinvoltura dall’abbraccio con Giggino a quello con Draghi. Sì esatto, proprio l’ex Presidente della Banca centrale europea, il salvatore di quella stessa Europa dalla quale il leader della Lega diceva di volerci salvare. E infine, naturalmente, ci sono loro: i grillini dai quali siamo partiti, che meritano la palma d’oro del trasformismo italico. Quelli che, come dicevamo, se provi a definirli democristiani finisci per fargli un complimento. Perché almeno i vecchi democristiani sapevano di essere quello che erano e dunque avevano la saggezza, e il buon gusto, di non sollevare mai il ditino moralisteggiante all’indirizzo degli altri, onde evitare le mirabolanti figure di palta collezionate invece da Giggino e i suoi, costretti, in questi anni, a corteggiare uno dopo l’altro tutti quelli che avevano precedentemente colpito con il mitico anatema del “vaffanculo”: dai “razzisti sporchi e cattivi” della Lega, a quelli del “partito di bibbiano”. Dai renziani a Mario Draghi – l’uomo dei poteri forti e delle banche – passando per il buon vecchio Cav, al quale di Maio diceva di non voler neppure stringere la mano.
Ora ce li ritroviamo lì, ad annaspare assieme agli altri, pur di salvare la poltrona, dentro i liquami della famigerata scatoletta di tonno. Uno schifo che vale il ripristino d’ufficio dell’intera diaria parlamentare, con tutti i rimborsi del caso opportunamente gonfiati. Se proprio avete deciso di diventare peggio dei democristiani evitate di scivolare sui fondamentali: loro almeno si facevano pagare bene…
Alessio Di Mauro